Perché solamente con punti interrogativi terminano le frasi dei più importanti quotidiani quando si tratta il tema della giustizia?
Non si è ancora spenta l’eco dell’audizione in Parlamento del Ministro della Giustizia Bonafede in merito a Recovery Fund e Giustizia e la discussione di una possibile riforma generale del sistema penale continua a essere praticamente nulla rispetto alle necessità reali, nei fatti, nelle parole, nelle intenzioni della politica e nelle discussioni mediatiche.
Se gli investimenti riguardano l’edilizia carceraria, interventi per l’impiego di manodopera detenuta anche in settori ecosostenibili e lo studio concesso in carcere a maggiorenni e minorenni, la domanda sorge legittima. Sono questi gli unici strumenti per alleviare concretamente il tormentato tema del sovraffollamento in carcere, che da decenni vede l’Italia sanzionata da parte della Corte Europea?
Oppure una riforma del processo civile, del Codice di Procedura Penale e dell’Ordinamento Penitenziario non potrebbe risultare una risorsa da promuovere? Il comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione sancisce che ”la carcerazione debba tendere al miglioramento dell’individuo”, e non sarà quindi la seconda Poggioreale che si vorrebbe costruire a Nola a risolvere il problema sovraffollamento. Soprattutto se il carcere e la Giustizia non saranno capaci di garantire nuove opportunità, in modo che chi ne uscirà possa avere alternative e sia meno portato a delinquere.
In un interessante articolo pubblicato su linkiesta.it a firma Sara Mauri, dove si cita “Vendetta pubblica”, libro appena edito da Laterza di Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze ed Edoardo Vigna, giornalista del Corriere, si sottolinea come secondo gli autori al 30/04/2020 i condannati in Italia che scontano l’ergastolo “sono il 4,4 per cento del totale, mentre la media europea è invece del 3,5”. Non solo, in Italia si sta in carcere di più – e ricordiamocelo i reati stanno diminuendo da un paio di anni – risultando per i rei molto più difficile trovare una normalità una volta fuori. Inoltre “in Italia se la recidiva è di 7 persone su 10, questa diventa due su dieci tra coloro che hanno trascorso la parte finale della pena in misura alternativa.”
Sarebbe questo sicuramente un impegno non da poco (investire in attività trattamentali e misure alternative) stando ai numeri dei detenuti presenti all’interno delle strutture, relativamente alla situazione fotografata al 30 settembre 2020, che vede moltissime regioni accogliere diversi istituti penitenziari con capienze regolamentari non idonee in relazione ai posti occupati. Secondo gli ultimi dati presenti sul sito del Ministero della Giustizia, sono 54.277 i ristretti in Italia, di questi poco più del 32% sono stranieri, per una capienza dichiarata di 50.570, con un sovraffollamento del 107,3%. In alcune regioni come Puglia, (con 11 istituti e 3.503 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 2.688 posti), Piemonte (con 13 istituti e 4.293 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 3.938) e Veneto (con 9 istituti e 2.271 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.902), il dato è maggiore.
Una criticità con cui lo stato italiano da tempo convive, scegliendo la via della sottoposizione ad infinite condanne per trattamento degradante nate dalla violazione dell’articolo 3 della CEDU (Corte Europea Diritti Umani) e rispettivi risarcimenti nei confronti di coloro che tale lesione hanno subito, invece di migliorare seriamente le condizioni di vita all’interno delle celle.
Una sentenza pilota la “Torreggiani”, partorita nel lontano 2013, proprio a causa della miriade di ricorsi che i molti detenuti fecero pervenire alla CEDU e che continuano a denunciare, non sembra essere stata d’insegnamento o da guida nel seguire la strada che altri paesi dell’unione, e non, hanno preferito percorrere.
Molto gira intorno a quello che la stessa Suprema Corte di Cassazione ultimamente ha definito come “spazio legale minimo e indispensabile per ogni singolo detenuto”. Uno spazio vitale, ribadiscono i giudici, che deve essere per ogni singolo individuo di almeno 3 metri quadrati calcolato al netto degli arredi fissi.
Nel nostro paese sembrerebbe non aver senso riflettere proprio su questo tema ed avere un’informazione corretta da parte della politica, relativamente a quello che sarebbe giusto fare per migliorare, non solo le condizioni di coloro che sono reclusi, ma sicuramente della stessa società in generale, che puntualmente si vedrà a fine pena “spedire al mittente” gente peggiorata e non migliorata, come dovrebbe essere dopo un periodo di detenzione.
Frasi agghiaccianti come “chiudeteli dentro e gettate le chiavi”, o linguaggi scurrili che in molti casi confortano le fuoriuscite di politici e cittadini comuni, non servono a risolvere il vero problema che altri paesi sono stati capaci di attenuare ed a volte anche ad eliminare pacificamente.
Non è giusto e non si potrà mai pretendere un “uomo migliore”, se colui che ha violato una legge sia poi costretto a dover vivere stipato in meno di 3 metri quadrati.
Il risultato ancora oggi è un cronico sovraffollamento carcerario, costretto ad aumentare ed a ridurre sempre più gli spazi già insufficienti, anche se il problema sembra essere stato risolto, “almeno sulla carta”, dalla decisione dei giudici della Suprema Corte della Cassazione a Sezioni unite. La quale dopo l’udienza del 24 settembre ha firmato un’informazione provvisoria, decidendo che “vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello.”
Un problema che a questo punto si tradurrà nuovamente in una pioggia di ricorsi. Sarebbe semplice invece investire su un’idea di detenzione che segua i canoni ormai consolidati della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della nostra Carta Costituzionale e non perseguire quella di un carcere punitivo e privativo.
Fonte: lettera21.org