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Rivolta nelle carceri – Richiesta archiviazione inchiesta sugli otto morti di Modena

La procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento: “Morti di overdose, chi è intervenuto ha lavorato in situazioni di estrema precarietà”. I parenti delle vittime e le associazioni pronti a presentare opposizione al gip.

Richiesta di archiviazione per reato commesso da persone ignote (omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto). Numero 1030/2020 del registro notizie di reato, modello 44. Ecco le carte ufficiali e la manciata di fotografie che raccontano che cosa successe un anno fa nel carcere di Modena, la strage del Sant’Anna. Durante e dopo la rivolta dell’8 marzo 2020 – detta in sintesi –  polizia penitenziaria, medici e infermieri della struttura e sanitari del 118 avrebbero fatto del loro meglio per soccorrere, assistere e curare “tutti” i detenuti. E se qualche smagliatura ci fu, quella  domenica e nella notte successiva,   lo si dovrebbe “solo”  all’eccezionalità della situazione, alle condizioni di caos e di emergenza, alle limitazioni imposte dal Covid.  Discorso analogo per il personale dei penitenziari di Parma, Alessandria e Verona, la destinazione di decine dei 417 detenuti trasferiti.

Servono 76 pagine, alla procura cittadina, per chiedere al gip di mandare in archivio l’inchiesta sulla morte dei cinque reclusi deceduti nella struttura terremota dalla sommossa (Hafedh Chouchane, Erial Ahamadi e Slim Agrebi la sera della rivolta, Lofti Ben Mesmia e Alì Bakili due giorni dopo) e di tre dei quattro compagni spirati nelle città di destinazione  (Ghazi Adidi a Verona, Artur Iuzu a Parma e Abdellha Rouan ad Alessandria, con il fascicolo su Salvatore Piscitelli rimandato ad Ascoli).  Questi otto uomini e ragazzi –  è la tesi delle due pm titolari del fascicolo, supportata dalle conclusioni di medici legali e tossicologi di parte –  sono stati stroncati da  overdosi  di metadone e/o di psicofarmaci, razziati e distribuiti da alcuni di loro e da altri. Non si sono trovate tracce o evidenze che facciano pensare ad altre cause oppure a concause. Non sono emerse responsabilità di terzi,  nemmeno dopo l’esposto presentato da cinque scampati e le denunce di altri sopravvissuti, firmate e anonime.  Eppure. Scorrendo  i capitoli della ricostruzione  –premesse generali  e  approfondimenti per ciascun morto –  più di un passaggio induce a riflettere,  interrogare e interrogarsi, individuare i possibili passaggi su cui  gli avvocati in campo faranno leva per evitare l’archiviazione e chiedere altre indagini. Chi ha visto il provvedimento, tra gli addetti ai lavori, non nasconde dubbi e perplessità.

Un punto centrale è il rispetto (o meno) dell’obbligo i sottoporre a visita medica i reclusi da trasferiti e  quelli coinvolti in azioni in cui venga usata la forza fisica, legittimamente. Fuori dal carcere di Modena, per provvedere, furono allestiti due posti medici avanzati. «Tutti i detenuti che man mano venivano portati fuori dal muro interno venivano tutti visitati dal personale sanitario dell’istituto e dal personale del 118». Ad alcuni furono somministrati farmaci salvavita, per sette si dispose il trasferimento in ospedale.  Ma non si ebbero tempo e  modo – visto lo «scenario estremamente complesso» –di registrare tutto ciò che venne fatto per applicare le norme in materia, non nelle prime fasi. «Si è dovuto intervenire in condizioni di estrema precarietà – parole dei camici bianchi,  in quello che viene paragonato a un campo da guerra – .I pazienti venivano assistiti all’aperto sul prato e sull’asfalto, dove erano presenti le forze dell’ordine con i loro numerosi automezzi, impegnate a sedare le rivolte». Dunque, in «un tale contesto di grandissima criticità», «non è stata prodotta alcuna documentazione scritta che potesse avere il valore di nulla osta al trasferimento-  in quanto avrebbe determinato una significativa perdita di tempo e di risorse preziosissime per assistere quante più persone possibile…. Non c’era tempo di chiedere nemmeno  il nome… ». Sarebbe stato impossibile compilare una certificazione –  altra giustificazione data da medici e collaboratori, avallata dalle pm titolari dell’inchiesta – anche perché i detenuti non avevano addosso documenti, i fascicoli personali erano andati distrutti nell’assalto all’ufficio matricola  (e nessuno deve aver pensato a chiedere nome e cognome a chi passava dai due tendoni del triage).  Risultato? Degli accertamenti sulle condizioni di salute effettuati nelle prime ore non c’è alcun riscontro documentale, cosi come non esistono nulla osta sanitari scritti per i trasferimenti. Complessivamente vennero spostate altrove 417 persone,  su 546 presenti, a fronte di un numero di medici e infermieri non precisato. Tuttavia, secondo la procura di Modena, «può ritenersi acquisita prova certa del fatto che tutti i ristretti siano stati visitati».

L’ordinamento penitenziario impone l’obbligo di visita c’è anche al momento dell’ingresso in carcere. Artur Iuzu, uno degli otto morti, finì a Parma  con altri 15 compagni. I trasferiti arrivarono in carcere alle 22.30. Vennero perquisiti e collocati in celle d’isolamento, come previsto a causa del Covid. Quasi tutti «davano segni evidenti di abuso di sostanze». Per questo, accanto ai reclusi «con occhi semichiusi, rallentati nelle reazioni e alcuni con eloquio incerto»,  nelle celle vennero messi  compagni  «lucidi e orientati».. Per uno del gruppo si rese necessario l’accompagnamento in ospedale e il personale fu impegnato per organizzare il trasferimento fino alla 1 di notte. Sollo alle 2 di notte, così è scritto nelle carte, la dottoressa di turno avrebbe potuto iniziare i controlli medici. Ma i detenuti per cui andavano verificate le condizioni di salute, testuale, «nel frattempo si erano già addormentati».   Si preferì non insistere per svegliarli e non aprire le celle. La dottoressa li vide da fuori.  Fece le visite senza entrare dentro” le celle, «ma solo colloquiando attraverso la grata della porta blindata, dopo essersi fatta accendere le luci all’interno ed aver visto che erano tutti a dormire». Provò a destarli «per farsi dire come stavano», però «nessuno aveva inteso di parlare con lei».  Possibile? Accertamenti clinici dal corridoio? Paura di rovinare il sonno a qualcuno? «Di norma – è la risposta che si dà nelle carte – le celle non possono essere aperte se non in corso di emergenza e comunque non da un unico operatore e solo su autorizzazione della sorveglianza generale» Artur Iuzu non ha più riaperto gli occhi, soccorso quando era troppo tardi.  La dottoressa ha dichiarato, a verbale:  «Ho sinceramente fatto del mio meglio».Per  Abdellha Rouan la fine è arrivata ad Alessandria. Si è accasciato mentre scendeva dal bus appena entrato nel cortile del carcere, alle «4.30 circa». La dottoressa di turno ha tentato inutilmente di rianimarlo con un defibrillatore semiautomatico.  L’equipe del 118 ci ha messo 40 minuti per raggiungere l’istituto penale, in un città deserta  (le 5.10 l’ora riportata nelle carte).

Dopo la sommossa, e un primo esame dei cadaveri, fonti ufficiali dissero che sui morti non c’erano segni di ferite. In realtà sui copri sono state trovate lesioni, tutte ritenute di modesta lesività e senza influenza sui decessi.  Per Hafedh Chouchane, ad esempio, ecchimosi alla schiena, alle braccia e a una gamba vengono spiegate con «azioni natura contusiva verificatesi durante la rivolte». Le escoriazione ad un braccio sono risultate essere precedenti,  correlate a tagli autoinflitti. Era uno dei cinque deceduti nel carcere di Modena. L’avvocato scelto dal padre si opporrà all’archiviazione. Così faranno,  per tutti i morti, i legali dell’associazione Antigone e probabilmente anche il penalista nominato dal Garante nazionale dei detenuti.

 

Fonte: larepubblica.it

Redazione OSAPPoggi

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