di Leo Beneduci_ Piemonte soprattutto, dopo le tassative disposizioni del locale Provveditore Galati (quello che si firma solo come il cognome come il Presidente della Repubblica – forse suo pari – e il cui comportamento è stato di recente stigmatizzato dalla Commissione Centrale di Garanzia). Eppoi la Toscana in cui uno specifico seminario sul tema (invitati per finta i Sindacati del Corpo) il Provveditorato ha mostrato ancora una volta come l’amministrazione preferisca cimentarsi in acrobazie disciplinari pur di colpire il personale piuttosto che occuparsi del benessere, delle condizioni di lavoro, degli ambiti, dei servizi, dell’organizzazione, degli alloggi etc. Invero, in Toscana durante il “pregevole” simposio, presenti i Comandanti ma non quelli dei Nuclei (forse perché meno colpevolizzabili) le slide predisposte e proiettate non si sono dimostrate un contributo formativo, ma un esercizio di torsione semantica. Il risultato? Confondere videosorveglianza e registrazioni, brandire pareri dell’Avvocatura come se fossero giurisprudenza e trasformare strumenti di sicurezza in armi di controllo, due slide come pugni al corpo della Polizia Penitenziaria trattata come avversario da abbattere. In una di esse, addirittura, l’estensore ha sostenuto che negli istituti penitenziari si è “fuori dai controlli difensivi” e che ordine, sicurezza e disincentivazione di reati rientrano nell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, da cui la conclusione: rispettate le condizioni dell’articolo 4 le immagini possono essere usate anche per contestazioni disciplinari, tutto fondato su un parere dell’Avvocatura dello Stato richiesto dal PRAP Emilia Romagna e dal DAP. Un’acrobazia interpretativa che non regge e che, purtroppo, la dice lunga sulle volontà di chi regge il potere nell’amministrazione penitenziaria, perché i diritti delle persone che servono lo Stato non valgono “in carcere”. Secondo il ragionamento del “se-docente”, si potrebbero usare solo le telecamere della camera di sicurezza in matricola e non quelle della camera di sicurezza in tribunale, un paradosso che mostra quanto sia fragile l’impianto logico. È come dire che le telecamere nei supermercati o in banca, installate a tutela del patrimonio, possano trasformarsi in strumenti disciplinari: un poliziotto municipale ripreso mentre attraversa la strada fuori dalle strisce pedonali potrebbe essere sanzionato sulla base di immagini pensate per la sicurezza urbana. La finalità di sicurezza non si trasforma automaticamente in controllo disciplinare del personale. Un’altra slide ha ribadito che per utilizzare le immagini a fini disciplinari occorre accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato, informazione ai lavoratori e rispetto della normativa privacy, ma anche qui la premessa è che siamo nell’ambito dei controlli del primo comma dell’articolo 4, per esigenze organizzative e di sicurezza. Il problema è evidente: si confonde il mezzo con il prodotto, la telecamera è uno strumento di videosorveglianza, ma la registrazione che ne deriva è un documento amministrativo e come tale, ai sensi della legge 241/1990, soggiace a precise procedure e garanzie, non può essere piegato a uso disciplinare senza rispettare regole chiare e vincolanti. Questa confusione non è casuale ma strategica, ed è la stessa torsione semantica che emerge dalla giurisprudenza quando l’amministrazione tenta di aggirare i limiti normativi. Un TAR ha censurato un caso emblematico dove un Vice Sovrintendente aveva effettuato “fotografie non autorizzate all’interno della sala telecomunicazioni ritraendo colleghi in servizio”, configurando “un controllo illegittimo sull’attività lavorativa dei colleghi, vietato anche al datore di lavoro e a maggior ragione a un collega libero dal servizio”. Un esempio analogo e pregnante è la confusione tra “presenza” e “controllo”: come se l’amministrazione sostenesse che, poiché i termometri sono installati per misurare la temperatura degli ambienti, le letture possano essere usate per contestare ai dipendenti di aver aperto le finestre senza autorizzazione, il termometro diventa così strumento disciplinare mascherato da esigenza tecnica. Allo stesso modo la videosorveglianza installata per la sicurezza dell’istituto viene trasformata in sistema di controllo del personale attraverso l’artificio semantico di chiamare “immagini” quello che sono in realtà “registrazioni documentali” soggette a specifiche garanzie procedimentali. Invocare un parere dell’Avvocatura dello Stato non basta, perché l’Avvocatura è organo consultivo dell’amministrazione e non giudice, i suoi pareri sono di parte e spesso richiesti per giustificare condotte già adottate. La giurisprudenza ha ripetutamente limitato l’utilizzo delle immagini. La Cassazione civile Sezione Lavoro nel 2024 ha stabilito che le riprese sono utilizzabili solo se rispettate le condizioni dell’articolo 4: autorizzazione, informazione ai lavoratori e rispetto della normativa privacy. La Corte d’appello di Milano ha chiarito che i controlli difensivi in senso stretto, per essere legittimi, devono rispondere a tre requisiti cumulativi: la presenza di un fondato sospetto circostanziato e non meramente generico, la natura ex post del controllo rispetto all’insorgere del sospetto e il rispetto del principio di proporzionalità mediante un corretto bilanciamento tra esigenze di tutela del patrimonio aziendale e dignità e riservatezza del lavoratore. Il Tribunale di Verona ha escluso la legittimità dei controlli generalizzati, stabilendo che “la videosorveglianza attivata in modalità continuativa su un intero settore aziendale o su un gruppo indistinto di lavoratori, finalizzata ad accertare in via esplorativa eventuali illeciti e ad individuare i responsabili in assenza di preventivi elementi indiziari riferibili a soggetti determinati, non rientra nel concetto di controllo difensivo ma costituisce controllo a tutela del patrimonio aziendale soggetto agli obblighi e alle procedure previste dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori”. La giurisprudenza amministrativa ha smascherato ripetutamente le acrobazie disciplinari dell’amministrazione penitenziaria, il TAR Toscana fa scuola. La Cassazione penale ha precisato che nei procedimenti disciplinari penitenziari “a fronte della genericità della richiesta istruttoria, fondata esclusivamente su affermazioni apodittiche di non avere commesso l’illecito contestato, senza evidenziare le ragioni per le quali l’acquisizione della prova sarebbe necessaria e senza specificare quali elementi del rapporto disciplinare sarebbero non corrispondenti al vero”, la mancata attivazione dei poteri istruttori non determina alcuna violazione di legge. La progressione è netta: ciò che nel seminario toscano viene presentato come pratica ordinaria è in realtà una patologia grave ed oramai incurabile, ovvero un’istigazione disciplinare; si confonde “immagine” con “videoripresa”, “documento” con “controllo”, “parere” con “giurisprudenza”, il risultato è un orientamento verso l’accanimento disciplinare, dove la videosorveglianza diventa strumento di repressione travestito da esigenza organizzativa. L’OSAPP denuncia questa torsione semantica e chiede trasparenza: il parere dell’Avvocatura va pubblicato, non brandito come ornamento retorico, solo così si può smascherare la deriva disciplinare e riaffermare che la videosorveglianza è strumento di sicurezza e non arma di controllo sul personale. La giurisprudenza ha tracciato confini chiari che l’amministrazione non può oltrepassare con artifici interpretativi, il seminario toscano rappresenta un tentativo di legittimare pratiche che la magistratura ha ripetutamente censurato, confondendo strategicamente mezzi e fini, strumenti e documenti, controlli e registrazioni. Il personale penitenziario merita rispetto e tutele, non acrobazie disciplinari che trasformano ogni telecamera in un occhio del Grande Fratello penitenziario. Ma e, dopo questo lungo excursus (di cui chiediamo venia) e che, ci auguriamo, aiuti i Colleghi/e anche a difendersi adeguatamente in caso di necessità, si prenda atto che Piemonte e Toscana sono forse le regioni peggiori dal punto di vista dei risultati in ambito penitenziario e, alla luce di ciò, i relativi Provveditori, come la legge prevede, dovrebbero essere destinati ad incarichi di studio. Ma nessuno farà una cosa del genere né a via Arenula né a Largo Daga a Roma, anzi è probabile che ordini nei sensi indicati siano stati impartiti proprio dal Centro verso il territorio, per cui aspettiamoci che in altri distretti accadano consimili iniziative, in cui onniscienti dirigenti (generali) renderanno equo lasciar scadere i procedimenti di detenuti che aggrediscono e distruggono e, nel contempo, punire agenti che hanno una macchia sulla mimetica. Fraterni Saluti a tutti. _ Nota per le redazioni_ Si autorizza la libera riproduzione del presente comunicato citando la fonte “OSAPP – Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria”. Interviste con il Segretario Generale OSAPP Leo Beneduci, disponibili previa richiesta, scrivere a osappoggi@gmail.com .
Leo Beneduci – Segretario Generale OSAPP
OSAPP – Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria
Ufficio Stampa OSAPP

