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Rinascita – Moscato: le affiliazioni in carcere e l’idea di uccidere Pantaleone Mancuso

Il patto fra Andrea Mantella, i Bonavota, Bruno Emanuele e Michele Fiorillo. Il nuovo locale di ‘ndrangheta di Vibo e la lettera di Francesco Antonio Pardea a Scarpuni causa di tensioni e scontri.

Ancora una giornata di deposizione “fiume” per Raffaele Moscato, fra i principali collaboratori di giustizia del maxiprocesso Rinascita-Scott. Collegato in videoconferenza, rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, Raffaele Moscato non ha mostrato tentennamenti confermando quanto dichiarato nei verbali della collaborazione arricchendo di diversi particolari fatti e circostanze che l’hanno visto in molti casi protagonista in prima persona.

La volontà di eliminare il boss Pantaleone Mancuso, alias Scarpuni

Per contrastare il potere di Pantaleone Mancuso, detto Scarpuni, che nel frattempo si era schierato con i Patania di Stefanaconi nella guerra di mafia contro il clan dei Piscopisani, diverse cosche hanno pensato di unirsi per far fuori il potente boss dell’omonimo casato di ‘ndrangheta di Limbadi e Nicotera. Nell’organizzazione dell’omicidio ai danni di Scarpuni – ha raccontato Moscato – erano coinvolti anche Franco Dascoli del clan Tripodi di Portosalvo e Nazzareno Galati dei Piscopisani i quali hanno partecipato a delle riunioni fatte in campagna a Piscopio. Siamo stati io e Nazzareno Galati a recarci a Nicotera con un furgone rubato per uccidere Pantaleone Mancuso e lì ci raggiunse Antonio Campisi, figlio dell’assassinato Domenico Campisi, il quale portò con sé un’ascia ed una pistola. Per il fatto di sangue era d’accordo pure Salvatore Cuturello”, che ha sposato la figlia del boss Giuseppe Mancuso, detto ‘Mbrogghja, tuttora detenuto.

Erano Rosario Fiorillo di Piscopio e Antonio Campisi di Nicotera che volevano tagliare la testa a Pantaleone Mancuso. Io e Nazzareno Galati dovevamo invece occuparci del recupero dei killer con due auto, ma quel giorno Pantaleone Mancuso non passò da dove lo aspettavamo. Anche i Bonavota di Sant’Onofrio, Salvatore Morelli di Vibo Valentia, facente parte del gruppo di Andrea Mantella, e Bruno Emanuele a capo dell’omonimo clan delle Preserre volevano morto Scarpuni e sapevano delle nostre intenzioni. Il clan dei Piscopisani – ha ricordato Moscato – parlò dell’idea di uccidere Pantaleone Mancuso anche con Saverio Razionale di San Gregorio d’Ippona. Ricordo che in carcere, in un periodo di comune detenzione, avevano deciso di eliminare Scarpuni personaggi come Andrea Mantella, Bruno Emanuele, Domenico Bonavota e Michele Fiorillo. Il primo che usciva di galera avrebbe dovuto organizzare l’omicidio”.

La riorganizzazione dei locali di ‘ndrangheta di Vibo e Stefanaconi

Siamo nel 2013 e secondo Raffaele Moscato si riorganizzarono all’epoca dei nuovi “locali” di ‘ndrangheta a Stefanaconi con a capo Salvatore Patania (fratello di Fortunato Patania ucciso nel settembre 2011), Francesco Fortuna “figlio di un tale che chiamavamo Cacazza e che passava notizie sui Patania al clan dei Piscopisani – ha ricordato il collaboratore – e Giovanni Franzè, quest’ultimo parente di Rosario Fiarè di San Gregorio e personaggio dedito all’usura”. Se la riorganizzazione del “locale” di Sant’Onofrio sarebbe passata attraverso i Bonavota, a Vibo Valentia si era insediata una nuova ‘ndrina nata dal gruppo Mantella (in quel periodo detenuto) una volta ucciso nel marzo del 2012 il suo braccio-destro Francesco Scrugli. Nel nuovo locale di Vibo e nel nuovo clan – ha spiegato Moscato – non si poteva mettere al vertice Andrea Mantella poiché lo stesso aveva una macchia imperdonabile secondo le regole della ‘ndrangheta, ovvero aveva una relazione con la propria cognata. Per tale fatto al vertice fu messo l’anziano Domenico Camillò che da giovane faceva parte del gruppo dei Pardea, ed accanto a lui in posizione apicale furono collocati Antonio Macrì, padre di Mommo Macrì, e Domenico Pardea che operava a Pizzo da diverso tempo dopo e si occupava di estorsioni e droga.

Domenico Pardea, detto Mimmu U Ranisi, aveva la dote di ‘ndrangheta del Vangelo e anni prima era stato preso a fucilate mentre si trovava in auto a Vibo Marina. Ho saputo – ha svelato Moscato – che erano stati i fratelli Loielo di Gerocarne poiché Domenico Pardea non gli aveva pagato della marijuana per un valore di dieci milioni di lire”. I fratelli Giuseppe e Vincenzo Loielo sono stati poi uccisi nell’aprile del 2002 in un agguato nei pressi dell’acquedotto di Gerocarne dal boss rivale Bruno Emanuele.

“All’apice della nuova ‘ndrina e del nuovo locale di Vibo – ha spiegato il collaboratore – c’erano anche Francesco Antonio Pardea e Salvatore Morelli. Pardea aveva ottenuto in carcere la dote del Trequartino da Pasquale Manfredi, detto Scarface, che faceva parte del clan Nicoscia di Isola ed aveva eliminato con il bazooka Carmine Arena di Isola Capo Rizzuto. Successivamente Paolo Lentini, detto Pistolacontabile del clan Arena, dopo la pace con i Nicoscia conferì a Francesco Antonio Pardea la dote di Padrinosotto la doccia del carcere di Frosinone. Nello stesso periodo abbiamo battezzato nel locale dei Piscopisani anche Antonio Franzè di Vibo, detto Platinì, dal quale in precedenza avevamo acquistato dieci chili di cocaina. Franzè aveva rifiutato il battesimo nella ‘ndrangheta che gli era stato proposto da gente di San Luca. Noi Piscopisani – ha ricordato Moscato – con Rosario Battaglia mandammo un’imbasciata a Raffaele Franzè, detto Lo Svizzero, cugino di Antonio Franzè e contabile del clan Lo Bianco. Lui ci diede il via libera ad affiliare Antonio Franzè in carcere ed inserirlo nel clan dei Piscopisani e noi gli abbiamo dato la dote dello sgarro”.

Francesco Antonio Pardea e la lettera a Scarpuni

I rapporti fra i Piscopisani e Francesco Antonio Pardea si incrinarono tuttavia quando Rosario Battaglia scoprì attraverso il boss Bruno Emanuele che Pardea aveva mandato tramite il padre Raffaele Pardea, detto Lello, una lettera al boss Pantaleone Mancuso, alias Scarpuni, pregando quest’ultimo di lasciarlo in pace, unitamente alla sua famiglia, dopo l’omicidio di Francesco Scrugli nel marzo 2012, aggiungendo di non avere nulla a che fare con Scrugli pur facendo parte dello stesso gruppo. Rosario Battaglia in carcere rimproverò duramente Francesco Antonio Pardea per tale lettera, mentre Bruno Emanuele aveva fatto sapere che se fosse uscito dal carcere avrebbe ucciso personalmente Francesco Antonio Pardea.

 

 

Fonte: ilvibonese.it

Redazione OSAPPoggi

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