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NORME E SITUAZIONI DI SERVIZIO ATTIVO – CASO 5: SVOLGIMENTO E SOLUZIONE

CASO 5   

Un senatore della Repubblica, di professione giornalista, chiede di poter accedere in istituto per l’esercizio dei suoi poteri ispettivi.

 Siamo giunti al quinto dei casi prospettati nella presentazione di questa iniziativa e la prospettiva d’indagine è attraverso gli occhi dell’addetto alla portineria che si trova a dover accogliere un senatore della Repubblica.

Tale status viene dimostrato attraverso l’esibizione del documento che attesta la pubblica funzione, quindi la circostanza che “nella vita privata” il senatore sia un giornalista non rientra nello spettro di conoscenze dell’addetto alla portineria.

Quest’ultimo dovrà accogliere l’autorità e non intralciare l’esercizio della facoltà di accesso di cui all’art.67 della legge 354/1975 e norme ad esso correlate.

Ora poniamo il caso – tutt’altro che infrequente – dell’assenza di un direttore penitenziario titolare e di un comandante del Reparto: la gestione della visita ricadrà sull’addetto alla sorveglianza generale che, magari, di domenica pomeriggio è un agente scelto o un assistente capo (in qualsiasi istituto del centro nord questo accade).

Bene, cosa si fa?

Il regolamento di servizio dice che il personale deve avere conoscenza di tutte le disposizioni che regolano l’attività all’interno dell’istituto.

Quindi, in portineria dovrebbero esserci le circolari DAP che disciplinano questa particolare materia, soprattutto in relazione a due aspetti:

  • gli accompagnatori del senatore;
  • le modalità di svolgimento della visita.

Badate bene che questi due elementi (accompagnatore e svolgimento della visita) hanno animato il dibattito parlamentare coevo alla emanazione della legge (nel 1974 es dep. Tassi) per riconoscere a deputati e senatori ampi e concreti poteri ispettivi e soprattutto per evitare – come indicato nelle direttive DAP – che le visite fossero un espediente per effettuare interviste (in pratica il senatore veniva in compagnia di un giornalista che entrava in qualità di collaboratore).

Ora l’art.67 stabilisce che possono entrare determinati soggetti (tra gli altri i deputati e senatori) e l’agente deve osservare tale precetto.

L’amministrazione dal 1981 emana direttive, che il personale di Polizia penitenziaria deve osservare, ma l’addetto alla portineria e la sorveglianza generale sanno cosa fare?

Perché l’accompagnatore, per esempio, deve rilasciare una dichiarazione su apposita modulistica che in portineria non c’è….ma udite udite, il personale di Polizia penitenziaria che segue la delegazione in base alle direttive del DAP deve consentire ai visitatori di parlare liberamente con i ristretti ed approfondire le situazioni maggiormente a rischio.

Tali dialoghi, però, non possono travalicare in veri e propri colloqui e/o interviste, specialmente se vertenti su contenuti espressamente vietati.

 Ora mi chiedo e vi chiedo:

Il senatore decide di visitare il carcere e portare un collaboratore che parla inglese, francese e spagnolo, in modo da poter verificare le condizioni detentive dei cittadini nordafricani anglofoni, francofoni e sudamericani presenti nei nostri penitenziari.

Per entrare nella Polizia penitenziaria devi conoscere l’italiano e per prestare servizio le circolari (?). Ora, se all’atto d’ingresso il senatore dice che il suo collaboratore è un interprete cosa si fa? Gli si nega l’accesso perché farlo parlare in lingue diverse dall’italiano equivarrebbe a non “captare” i colloqui del senatore (a proposito è lecita una simile attività?) come prescritto dalla direttiva DAP?

Lo si fa entrare ma, poi, il giorno dopo non si sa come (magari il detenuto scrive personalmente  ad un giornale ) esce sul giornale un articolo sulle condizioni dei nordafricani nel carcere di VATTELAPESCA. L’amministrazione chiederà alla sorveglianza generale chiarimenti e il povero agente scelto dirà che non ha capito cosa ha chiesto il senatore tramite l’interprete.

 Volete sapere come va a finire?

Che l’agente si prende rapporto; il senatore ha esercitato una sua prerogativa e l’interprete potrà tranquillamente dire che era un colloquio privato che non ha toccato nessun aspetto, per dirla con le parole della circolare “vertente su contenuti espressamente vietati”.

Perché non esistono contenuti espressamente vietati se il soggetto protetto (ad es. l’indagato) sceglie liberamente di dire una sua cosa personale (diverso è se altri infrangono segreto istruttorio o privacy).

 Ma  poi, cosa significa veri e propri colloqui o interviste – senza l’aggettivo “giornalistiche”?

Il dialogo tra visitatore e detenuto è un colloquio in occasione del quale si fa un’intervista, che significa  “incontrarsi brevemente”.

 Buon lavoro e, prima ancora, buona fortuna. 

By Magile

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Redazione OSAPPoggi

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