
di Leo Beneduci_ Oggi voglio dedicare una riflessione a chi ha nel DNA il vero codice genetico della Polizia Penitenziaria. Parlo di quegli addetti, preposti e coordinatori di sezione che ogni giorno respirano l’odore acre del carcere, sentono risuonare urla disperate tra le celle, vedono schizzare sangue dalle braccia degli autolesionisti, sedano risse e si beccano sputi e insulti dai detenuti. E come se non bastasse, prendono pure calci nel sedere e rapporti dai superiori che a piano terra di Largo Daga analizzano comodamente gli eventi critici dal comfort dei loro uffici. Il problema nasce dall’alto e ha un nome preciso: il DAP – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Manca completamente di capacità organizzative. Mentre l’omologa articolazione ministeriale si chiama DOG (Dipartimento per l’Organizzazione Giudiziaria), nella Polizia penitenziaria abbiamo degli ingegneri amministrativi di piano terra che, sotto la guida del Direttore Generale Parisi, non si rendono conto dello scempio che stanno perpetrando. Non sanno amministrare. Qualche piano più su la Direzione Generale Detenuti e Trattamento non sa organizzare i circuiti detentivi tanto da averli sbolognati ai PRAP che a loro volte non li faranno. È questo l’obbrobrio che genera l’abbandono istituzionale dei poliziotti di trincea. Sono loro i colleghi che lavorano nei reparti i veri poliziotti, quelli che restano in servizio a gestire l’inferno quotidiano. Eppure, a pochi passi dai cancelli di sbarramento delle sezioni, proliferano uffici climatizzati dove si sistema di tutto. C’è l’addetto alla segreteria particolare del direttore che percepisce addirittura l’indennità di presenza, c’è un intero esercito di poliziotti al servizio dei ragionieri, degli educatori, dell’ufficio comando e del sopravvitto.
Il bello è che il matricolista, l’addetto comando e quello del sopravvitto non entrano mai nelle sezioni. Delegano tutto al personale di trincea: CNR, dinieghi di acquisti, contestazioni. Se proprio devono notificare un atto, è il detenuto che va da loro, ma è sempre l’addetto di sezione che deve perquisire, annotare, gestire ogni movimento nel sangue e nel caos, e pure accompagnare il detenuto in ufficio, perché i burocrati degli atti giudiziari devono discettare di questioni di diritto. E mentre succede tutto questo, il GIO – Gruppo Intervento Operativo – che fa? Si allena in palestra o fa ordine pubblico. Fanno rappresentanza, magari arrestano qualcuno, partecipano a operazioni mediatiche, ma il nuovo giunto se lo sciropperanno sempre i poliziotti di trincea. Allora io mi chiedo: conta più l’apparenza o la sostanza? Se conta l’apparenza, continuiamo pure con l’ordine pubblico e le passerelle. Se conta la sostanza, smettiamola di lasciare soli i poliziotti di trincea e ri-organizziamo il Corpo di Polizia penitenziaria La gestione delle risorse è completamente inadeguata. Chi lavora davvero nelle sezioni e nei reparti non può nemmeno avere il cambio per il pranzo perché l’addetto alla segreteria “non può” sostituire il collega di sezione. Poi vai alla sala convegno – lo spaccio – e li trovi tutti lì, belli comodi. C’è una cosa che mi fa ridere, se non fosse tragica. Perché non si fa un rapporto di proporzione tra il personale delle cancellerie di un ufficio giudiziario e quello di una matricola? È possibile che in un istituto con cento detenuti ci siano quattro, cinque matricolisti? Uno ogni venticinque detenuti per gestire quella che nell’era della tecnologia potrebbe essere elevata e valorizzata, invece di sprecare così le risorse umane. È inaccettabile che esistano comandanti dipartimentali di serie A in forfettaria che alzano il telefono e ricevono rinforzi, spostano detenuti, mentre i poliziotti di trincea restano soli a gestire tutto, turno dopo turno. La vera pelle del Corpo sono loro, e su di loro ricade sempre tutto mentre il DAP continua a non saper amministrare e organizzare un bel niente. Mi dicono che non esiste più la vocazione di fare il Poliziotto Penitenziario e il 20% di assunti in meno dei posti disponibili ad ogni concorso avvalorerebbe questa tesi, ma chi si è arruolato perché questo desiderava fare, magari fin da piccolo? Io sono entrato in Polizia Penitenziaria (allora Agenti di Custodia) per lo stipendio fisso e credo che per il 99,9% degli interessati sia andata così, poi la sezione detentiva, la vicinanza ai colleghi e, in generale, la stessa vita nell’istituto penitenziario mi ha fatto comprendere ed amare il lavoro che andavo a svolgere e l’uniforme che indossavo Ma un giovane che oggi muove i primi passi nella Polizia Penitenziaria come potrebbe comprendere ed amare la confusione ed il palese stato di abbandono che sono la regola in ogni ambito del sistema ed a cui si può sopravvivere solo esercitando ogni possibile “furbizia” o andandosi a trovare la necessaria raccomandazione per altri incarichi esterni all’istituto?
Fraterni saluti a tutti.
Leo Beneduci – Segretario Generale OSAPP
Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria
Ufficio Stampa OSAPP