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Il Covid invade le carceri, a Roma rischio contagio alle stelle: “Svuotiamole”

Andrea Catarci analizza il problema del sovraffollamento dei penitenziari ai tempi del Coronavirus: “Ricorso alle misure alternative è ragionevole e necessario”.

La seconda ondata di Covid-19 non sta risparmiando le carceri. In una settimana i detenuti risultati positivi sono raddoppiati, passando dai 215 del 28 ottobre ai 395 del 3 novembre 2020, con 20 casi in cui si è reso necessario il ricovero ospedaliero. Un andamento simile si registra per gli agenti: da 232 quelli colpiti dal virus sono diventati 424.

Il Ministero di Grazia e Giustizia ha dato indicazione di gestire l’emergenza attraverso protocolli di sicurezza e l’allestimento di reparti ad hoc, prevedendo un periodo di isolamento preventivo e cautelare all’ingresso, in attesa che arrivi l’esito del tampone. La misura viene attuata tra molte complicazioni, visto che lo spazio è già ampiamente insufficiente nella quotidianità. Essa, comunque, non è sufficiente a mettere un argine all’incalzare della pandemia: per fronteggiarla adeguatamente occorrerebbe accompagnare gli accorgimenti tecnici con una drastica riduzione della popolazione carceraria.

In Italia le persone recluse sono diminuite solo nella fase del lockdown, quando il governo – dopo le rivolte che da nord a sud hanno percorso il paese – ha dato impulso all’utilizzo della detenzione domiciliare e le presenze negli istituti di pena sono scese a 52.250. Da allora, terminato l’eco delle mobilitazioni con la frettolosa archiviazione dei 13 morti, delle decine di feriti e delle denunce di pestaggi e abusi perpetrati dopo la conclusione delle agitazioni, i numeri hanno ripreso a salire. Attualmente sono in carcere 54.815 persone, mentre i posti letto dichiarati sono 50.552 e quelli effettivamente disponibili 47.187.

Anche a Roma e nella regione i rischi connessi di contagio sono alti

Se il sovraffollamento medio nazionale è del 116%, nella nostra città e nel Lazio arriva a sfiorare il 130%. A peggiorare ulteriormente il quadro contribuisce il complessivo ritardo delle procedure giuridiche, con le fuoriuscite che sono ancora più rallentate, nonché la scelta di ridurle ai casi in cui viene rilevato un rischio sanitario.

A Rebibbia a settembre e poi a ottobre si sono verificati alcuni casi di covid19. Nonostante ciò nelle strutture del Tiburtino continuano a starci 1.479 persone per 1.150 posti al Nuovo Complesso, 366 persone per 240 posti alla Casa di Reclusione, 304 persone per 240 posti alla Casa circondariale femminile. Non è da meno Regina Coeli, che a fronte di una capienza di 896 posti ospita 1002 detenuti, prevalentemente in attesa di giudizio. Una decina di giorni fa proprio nelle celle del carcere di via della lungara i detenuti hanno ripreso a protestare per tale situazione, battendo sulle sbarre con gli utensili da cucina.

Un maggior ricorso alle misure alternative è ragionevole e necessario ma viene ostacolato dalla subcultura forcaiola

Assecondando la tendenza a chiedere politiche più repressive e pene esemplari, da tale situazione si fa spesso scaturire la richiesta di cospicui fondi per la costruzione di nuovi carceri. La questione in realtà è più semplice, basterebbe guardare al resto d’Europa e aumentare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, cioè l’affidamento in prova al servizio sociale, gli arresti domiciliari e la semilibertà: da una parte si preparerebbe meglio il rientro in società grazie ai contatti con l’esterno e dall’altra si recupererebbe, senza investimenti economici, quel minimo di metri quadri necessario. A confermarlo è Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti, che ha ben spiegato come uno dei temi centrali torni a essere quello della “riduzione del numero di presenze attraverso provvedimenti che siano in grado di far emergere la centralità della tutela della salute di ogni persona”. Le norme del decreto “Cura Italia” e del decreto “Ristori” vanno solo in parte in tale direzione, prevedendo di concedere i domiciliari a poche migliaia di detenuti con pene lievi. Tanto basta, però, per scatenare l’opposizione di vasti settori dell’opinione pubblica nella denuncia delle “scarcerazioni”, che tali non sono visto che gli interessati continuano a scontare la pena. Dalle parti leghiste, infine, c’è addirittura chi riesce a sostenere che il provvedimento è inaccettabile perché “il rischio contagio è maggiore all’esterno che all’interno” delle prigioni, figuriamoci quante difficoltà si incontrano a sviluppare un ragionamento serio sull’argomento. Per questi stessi motivi non si riesce a portare avanti nessun provvedimento di amnistia, che come l’indulto prevede maggioranze qualificate in parlamento che ad oggi non sembrano raggiungibili.

In carcere si continua a morire

Aldilà del sovraffollamento, parlando del sistema carcerario non si può omettere di osservare come esso mantenga i tratti angoscianti di un’istituzione totale dalla ferocia congenita che, oltre ad ammassarle, tante persone le inghiotte. Negli ultimi venti anni, dal 2000 al 2020, quelle che sono morte dentro sono state 3.154, di cui 1.155 si sono tolte la vita da sole. Una ripetizione pedissequa ogni anno per nulla modificata dall’emergenza della pandemia: nel 2020 si sta già a quota 127 morti con 49 suicidi.

La salute dell’Italia, guardando alle carceri come all’elemento richiamato da Voltaire per misurare la civiltà di un paese, è davvero precaria.

Andrea Catarci, coordinatore del Comitato scientifico di Liberare Roma

 

 

 

Fonte: affaritaliani.it

Redazione OSAPPoggi

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