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Carcere inutile a rieducare o serve ancora? Il dialogo tra Gherardo Colombo e Vittorio Occorsio

Il carcere come strumento di rieducazione e repressione è superato? Ne è convinto un ex pm eccellente, Gherardo Colombo: in questo incontro con Vittorio Occorsio, il cui nonno, omonimo, fu ucciso dai terroristi di Ordine Nuovo nel 1976, spiega perché. Il dialogo (di cui qui pubblichiamo un’anticipazione) sarà trasmesso in occasione di un dibattito organizzato dalla Fondazione Occorsio all’interno del Festival della Giustizia Penale che si terrà in modalità mista (web e presenza) dal 21 al 23 maggio.

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OCCORSIO: «Lei è un convinto assertore dell’inutilità del carcere sul piano della rieducazione del condannato».
COLOMBO: «Mi sono convinto che il carcere, così com’è, non aiuta chi lo subisce a reintegrarsi positivamente nella società e non ci aiuta ad essere più tutelati. La mia opinione è che chi è pericoloso sta da un’altra parte, con tutti i diritti costituzionali che non confliggono con la sicurezza, e ci sta fin tanto che è pericoloso; per gli altri, il carcere non serve. È la Costituzione – che, agli articoli 3 e 27, assicura pari dignità a tutte le persone – a imporre che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Inoltre, la funzione rieducativa della pena significa che l’aver commesso un delitto non necessariamente richiede, per rieducarsi, il carcere».
O: «L’articolo 27 della Costituzione viene a volte, non da lei, invocato in maniera piuttosto vaga. La norma non dice che la pena serve solo alla rieducazione del condannato. Ma che deve “tendere” alla rieducazione. Quest’ultima non esaurisce la funzione della pena. Nessuno qui vuole dire che la pena debba comportare violenza o soprusi. Ed anzi sono convinto che la sicurezza nelle carceri, così come un’edilizia più accogliente, siano elementi su cui valutare il grado di civiltà di una nazione. Ma sono altrettanto convinto che la privazione della libertà per i criminali sia un sacrificio imposto a garanzia dei cittadini. Anche quando la condanna arriva a molti anni dal reato».
C: «Vogliamo guardare ai risultati? L’alto numero di recidive fa sì che vi siano nuovi reati, che la collettività ne continui a soffrire».
O: «Però, mi consenta, occorre anche rispettare il punto di vista delle vittime, o no?»
C: «Ma è proprio l’attuale sistema a non interessarsi delle vittime. Nella giustizia riparativa, invece, la vittima è un interprete principale, attraverso la ricucitura della relazione che il reato ha troncato. Il male consiste in quello: nella negazione della relazione sociale, nel rifiuto dell’altro e conseguentemente nel calpestarlo».
O: «Perché chiedere ai familiari delle vittime di doversi far parte attiva, oltreché della memoria – che già richiede alto senso di responsabilità per tornare sul dolore patito – anche di questo processo di riconciliazione con i carnefici?»
C: «La giustizia riparativa è su base volontaria, nessuno può esservi costretto. Ma torniamo alla pena. In alcuni Stati degli Stati Uniti c’è ancora la pena di morte, eppure lì si uccide circa 8 volte più che da noi. Non è che la pena di morte educhi all’omicidio? Occhio per occhio rende il mondo cieco, diceva Gandhi. Occorre separare le conseguenze della trasgressione dalla vendetta. È ben più faticoso compiere un percorso di mediazione, di giustizia riparativa, che essere costretto a starsene 20 ore al giorno sulla brandina della cella».
O: «Non c’è nessun desiderio di vendetta. Mio padre ha anche scritto un libro, in forma di lettera a me, “Non dimenticare, non odiare”. Il mio coinvolgimento non deriva da essere nipote di mio nonno. Direi le stesse cose comunque. Qui si discute di quale sistema assicura al meglio l’incolumità propria, dei propri cari, dei propri beni. Sono le alternative al sistema penale attuale che mi preoccupano».
C: «La giustizia riparativa viene praticata in molti Paesi con successo, ci si deve misurare con la realtà. Gli studi parlano di una decrescita della recidiva del 25%».
O: «Sperando che non vi sia, in questa statistica, una base maggiore di reati…».
C: «Non è così. Ho fatto il repressore per 33 anni, e mi sono dimesso anche perché finalmente ho compreso che questo sistema carcerario è contrario all’umanità, oltre ad essere inutile».
O: «Ma non possiamo semplicemente migliorare le carceri e sperimentare nuove forme di rieducazione? La Fondazione intitolata a mio nonno svolge anche iniziative nelle carceri, specialmente nelle scuole dei detenuti. Umanità del carcere e sistema repressivo vanno di pari passo».

Fonte: video.corriere.it

Redazione OSAPPoggi

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