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Bologna – Procuratore Amato: “Cellulari in carcere, le inchieste partono dalle mafie”

Il procuratore parla del lavoro fatto per contrastare l’utilizzo illegale di mezzi di comunicazione alla Dozza.

In carcere chi ha i soldi si fa arrivare i cellulari e continua a comandare da dietro le sbarre. I poveracci, la maggior parte stranieri, privati dalle traversie delle loro vite persino di un’identità certificata, non possono neanche chiamare la famiglia dall’altra parte del mondo, perché la burocrazia li blocca”.

Se la morte è una livella, il carcere è una forbice. Che taglia e separa nettamente la popolazione penitenziaria, ben oltre l’inclinazione personale di ciascuno, a prescindere dal fine rieducativo, ridotto a mera buona intenzione, viste le carenze di personale.

In via del Gomito, oltre il muro di cinta che separa la Dozza dalla città, ci sono i detenuti ricchi e i carcerati poveri. E i primi dettano legge.

I TELEFONINI
Non si tratta di mera suggestione ‘letteraria’. In due anni, alla Dozza, sono stati sequestrati una trentina di cellulari, tra microtelefoni, grandi come una moneta da 2 euro, e smartphone, nascosti nei luoghi più impensabili, tutti nella disponibilità di detenuti legati alla criminalità organizzata, italiana e straniera.

Solo negli ultimi due mesi, la polizia penitenziaria ne ha sequestrati una decina nella sezione ‘Alta sicurezza’. L’ultimo lo aveva in pancia un boss sinti. Un pasto rimasto indigesto, tanto da farlo finire in ospedale, operato d’urgenza in preda a spasmi e dolori atroci.

“In generale, si tratta di detenuti campani legati alla camorra – spiega chi lavora in carcere –. I siciliani e i calabresi sono più discreti, si affidano ancora ai pizzini. Un metodo magari meno ‘immediato’ di comunicazione, ma sicuramente meno tracciabile, più complesso da individuare”.

LE INCHIESTE
“Come Procura ci siamo posti il problema dell’oggettiva difficoltà, da parte dell’amministrazione penitenziaria, di effettuare dei controlli preventivi per evitare l’ingresso dei cellulari in carcere. Così, abbiamo deciso di valorizzare nelle indagini legate alla criminalità organizzata anche questa criticità”. Lo spiega il procuratore capo Giuseppe Amato, sottolineando come questa attenzione della Procura al fenomeno abbia “permesso di verificare l’utilizzo della tecnica con il drone anche su Bologna, una tecnica fraudolenta che si aggiunge al più consueto passaggio, brevi manu, dell’oggetto, da parte di famigliari o professionisti che vengono in contatto con il detenuto.

O peggio, come in passato accaduto, anche da parte di agenti della penitenziaria infedeli”, prosegue il procuratore capo. Sono diversi i fascicoli aperti, a seguito delle diverse notizie di reato acquisite: “Non c’è un’unica indagine, perché ogni fatto è a sé”. Il procuratore puntualizza: “Con il Nic (Nucleo investigativo centrale) della penitenziaria e con le altre forze di polizia abbiamo fatto operazioni specifiche sia su Bologna che su Ferrara, arrivando anche, per primi in Italia, ad applicare l’articolo 391 ter del codice penale, introdotto nel 2020. Un’intuizione che abbiamo avuto, come Procura distrettuale”.

LA NUOVA LEGGE
La norma prevede che “chiunque indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo a effettuare comunicazioni” è punito con reclusione da uno a quattro anni. Se a introdurre il telefono è un “pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o un soggetto che esercita la professione forense” la pena va dai due ai cinque anni. E il reato viene contestato anche al detenuto che riceve il cellulare.

“Questa norma, a mio avviso, andrebbe calibrata meglio – commenta il procuratore Amato –. Infatti, la pena prevista in questo caso per il detenuto è inferiore rispetto a quella prevista per il reato di ricettazione (da 2 a 8 anni, ndr ), che poteva essere contestato in precedenza”. Ma l’obiettivo è “dare un messaggio, perché sulle modalità di contrasto, la polizia penitenziaria da sola può avere difficoltà”. L’ordinamento penitenziario prevede inoltre che il detenuto trovato in possesso di un telefono venga subito trasferito.

UN PROBLEMA COMPLESSO
Un’idea, per chiudere le comunicazioni illegali una volta per tutte, “protebbe essere quella di ‘schermare’ gli istituti di pena con dei jammer. Ma si tratta di una soluzione difficilmente percorribile per due motivi: il costo elevato, quasi inostenibile, per un intervento su larga scala e la necessità di garantire a chi lavora all’interno del carcere di effettuare chiamate”, puntualizza il procuratore.

 

 

 

Tratto da: ilrestodelcarlino.it

 

 

 

 

Redazione OSAPPoggi

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